Tercimonte: 500 rastrelli per una bici

 Tercimonte è un piccolo paese delle Valli del Natisone alle falde del Matajur, abbarbicato su un colle posto alla confluenza dell’Alberone con il Rieca, e nelle giornate limpide gode di una vista impareggiabile verso Cividale e la pianura. Purtroppo è ormai sconosciuto ai più, ma fino a trent’anni fa non era così perché vi fioriva l’artigianato dei rastrelli.

Ci si arriva da Savogna percorrendo la larga strada che sale al Matajur e abbandonandola allo slargo di Vartacia per girare a sinistra. Un paio di km ed ecco siamo nella piazzetta: un gruppo di case strette l’una all’altra, fiori ovunque, geranei, gigli, cataste di legna per l’inverno, nulla fa pensare a un paese quasi spopolato, trenta persone in tutto a “resistere” tra il borgo di sopra e quello di sotto.

Incontro Antonio Trinco, detto Tona Piernu, classe 1925, in una calda mattinata di giugno, all’indomani della grande festa di San Giovanni, patrono del paese. Per parlare con me è tornato a casa dal campo in cui stava falciando, nonostante la sua non più tenera età. Vorrei che mi raccontasse un po’ della vita del paese e del fratello Valentino, detto Tin (1922-1990), il fotografo di cui è stata appena inaugurata quassù una splendida mostra. Zio Tona, alto e asciutto, tradisce la sua età solo per i capelli candidi, ha un modo di parlare pacato e affabile che mette subito a suo agio l’interlocutore. “Sono nato qui, nel centro del paese, e posso raccontare quello che so e che ho vissuto, a partire dagli anni Quaranta. Allora eravamo 210 persone, tutti contadini. Le nostre risorse erano principalmente le castagne, ci servivano per mangiare ma anche per scambiarle con il granoturco. C’erano le viti, il frumento, le patate, c’era tantissima frutta, le mele Seuka in particolare. Potrebbero venire anche adesso, le mele, come prima, solo che non le mettono più. Però Tercimonte aveva una cosa speciale: in ogni famiglia c’era un artigiano che faceva le grabje, i rastrelli, se ne facevano a migliaia.” Chiedo a Tona da quanto tempo esiste questa attività. “Oh, è vecchia, molto vecchia, esiste da centinaia di anni e ha salvato il paese dal totale spopolamento. Dagli altri paesi sono scappati tutti, mentre qui sono rimasti ad abitare fino agli anni Settanta.”

Tona si alza e mi conduce in una stanzetta dove tiene gli attrezzi del mestiere: “I rastrelli si facevano in serie: prima bisognava spaccare i tronchi, poi tagliarli con la scure, poi segarli – a mano, ovviamente, e le parti grezze erano rifinite con due attrezzi particolari, la baba (la donna, la vecchia), e lo škof (il vescovo). Si tratta di due panche munite di una morsa che si aziona usando un pedale. L’artigiano si siede a cavalcioni, aziona il pedale con i piedi e stringe così il pezzo da lavorare nella morsa. Con la baba si rifinivano i manici, con lo škof invece i pettini. Per il pettine il legno migliore era il noce, ma se ne usavano anche altri. Il manico era di nocciolino, e i denti, che risultavano duri come il ferro, erano di corniolo.

Le donne si dedicavano interamente al lavoro dei campi, gli uomini erano impegnati con l’attività dei rastrelli e in campagna si limitavano a vangare e a curare le viti. Però poi tutti in famiglia collaboravano, le donne curavano le rifiniture e i bambini preparavano i denti per il pettine. Ogni famiglia produceva da 1000 a 1500 rastrelli all’anno Le singole parti, preparate durante l’inverno, in primavera e maggio-giugno venivano generalmente assemblate il venerdì, giorno di “movimento grande”. I rastrelli pronti venivano portati in spalla fino a Ieronizza, prima località raggiunta dalla strada e da cui partiva il camion per Cividale. Però chi aveva la bici li portava a Cividale personalmente. Si vendevano   vicino al Ponte del Diavolo, dove ancor oggi c’è una bancarella che vende cesti.Di rastrelli se ne facevano due tipi: uno normale e uno con il manico a forcella. In Friuli, a differenza che nelle Valli, li volevano grandi, molto grandi.”

Vorrei capire il valore di un rastrello. Tona sorride ricordando:”Nel 1942 avevo 18 anni e volevo a tutti costi comprarmi una bici, mi sono messo a fare pettini, che quella volta valevano 2 lire. Una bici ne costava 1150! Provi a fare i conti lei di quanti pettini ho fatto! Ma ancora i soldi non bastavano, così lo zio Ivan mi ha regalato 150 lire ! E la bici l’ho portata su in spalla fino al paese, per farla vedere a tutti, mica c’era la strada allora, è arrivata solo nel 1958!”

Facciamo una passeggiata fino al cocuzzolo dove sorge la chiesa. Tona, che è il sagrestano, ne stringe in pugno la grande chiave. Il muraglione è stato recentemente ripulito dalla vegetazione per opera di volontari e adesso la chiesa appare in tutta la sua mole imponente, come un baluardo, una fortezza, attorniata da tigli centenari, e un grande ippocastano. Sul crinale ci sono persone intente a smontare il tendone dove si è festeggiato. Lì accanto ci sono le ceneri del kries, il grande fuoco benaugurale di San Giovanni, antica tradizione delle Valli di recente restituita a nuova vita.   Scendiamo poi per una scalinata fiorita nella frazione di Tercimonte di sopra, passiamo davanti a un grande affresco devozionale sbiadito, opera di Jacun Pitôr, e arriviamo alla canonica bianca e odorosa di pulito e di pittura.

E’ qui che il Centro Studi Nediža, grazie alla collaborazione del Comune di Savogna, ha appena inaugurato la mostra dedicata a Tin Piernu, che ripropone le fotografie già esposte in due distinte occasioni nel 2003 e nel 2005 alla Beneška galerija di San Pietro al Natisone.

Tona è orgoglioso del fratello Valentino: “Lui era contadino, come tutti, ma anche falegname, muratore, elettricista, fotografo… ma non faceva queste cose alla buona, no, lui faceva tutto in modo perfetto. Aveva solo tre anni più di me. Lo zio Ivan gli aveva regalato una macchina fotografica perché sapeva che era la sua passione. Conosceva i fotografi Braidotti di Cividale e Pignat di Udine che con lui erano prodighi di suggerimenti e per nulla gelosi dei segreti del mestiere.”

Il suo archivio, conservato dal figlio minore Fabio che vive ancora a Tercimonte, consta di mille lastre con volti di donne, uomini e bambini e scene di vita dal dopoguerra agli anni Settanta. Sono state recuperate integralmente grazie all’encomiabile lavoro del Centro Studi Nediža, nelle persone di Alvaro Petricig e di Graziano Podrecca. Ci sono straordinari ritratti che sono al tempo stesso un documento sociologico e un’interpretazione originale di volti, gesti, posture. E poi le immagini del paese, del lavoro, di diverse generazioni riunite davanti all’obbiettivo. Tra le più belle quella di una bambina che stringe un coniglietto tra le braccia, un grande fiocco sghembo sui suoi capelli biondi, sul suo vestitino sono ricamati dei bellicosi giannizzeri! Le rare immagini di morte, i funerali di un neonato e di un adulto. E ancora le immagini della grande nevicata del 1952, tra le quali spicca quella foto corale straordinaria che è tuttora esposta nella grande mostra dedicata agli Anni Cinquanta al Palazzo Reale di Milano.

I curatori della mostra mi raccontano:”Abbiamo rintracciato questo materiale quasi casualmente. Il modo molto personale di fotografare di Tin ci ha colpito. Era una persona disponibile verso la comunità per la quale si prodigava in ogni modo, se qualcuno aveva bisogno di una foto lo veniva a chiamare nel campo oppure andava da lui dopo la messa della domenica. Immortalava momenti in maniera inedita rispetto ai fotografi che a quel tempo giravano per le valli e la Carnia facendo foto folkloristiche e oleografiche, e sono proprio i ritratti, nella loro modalità codificata, a valorizzare la capacità di Tin Piernu di cogliere l’essenza di una persona in un determinato momento.”

Che cosa vi ha spinto a portare qui le due mostre? “Il fotografo Luca Laureati, che aveva curato la digitalizzazione delle lastre e la stampa per le prime due mostre, aveva in mente già da tempo di creare una specie di terzo tassello, fotografando a sua volta la gente di qui 50 anni dopo. La festa di San Giovanni ce ne ha dato l’occasione e i paesani, in questo contesto, dopo il primo iniziale imbarazzo hanno reagito con grande entusiasmo e partecipazione facendosi fotografare fino al calar della sera.

Luca Laureati per ogni persona ha fatto tre scatti, un primo piano, un piano medio e un piano americano su un fondale bianco. Ma la mostra ha raggiunto anche altri due scopi. Tin Piernu torna al suo paese e torna in una casa, non in una asettica galleria d’arte, dove i suoi paesani probabilmente non andrebbero mai. Le sue foto possono ri-innescare un dialogo con le persone che vanno a vederle, e con il loro aiuto possiamo identificare tutti quei volti anonimi.   Portare la mostra a Tercimonte è stata la volontà di dare un nome a queste persone, perché non c’erano i nomi sulle lastre.”

Ma a questo punto interviene Tona: “Ma io li conosco tutti! – e li passa in rassegna uno a uno indicandoli con la grande chiave che stringe nel pugno – E qui che si vede mio fratello, chi pensate che abbia scattato la foto? Io, naturalmente!”

©Antonietta Spizzo per “Il Nuovo” 2005 – le fotografie di Tin Piernu sono pubblicate per gentile concessione dell’Archivio del Centro studi Nediža