Contrabbandieri sullo Judrio

 A colloquio con Jožica Strgar, etnologa e regista, che nel suo spettacolo “Kontraband čez Idrijo” ha colto le antiche paure e le nuove speranze della gente che ha vissuto sul confine.

Abbiamo fatto a fettine una sbarra di confine…

Ponte Clinaz, 26 dicembre 2007. Tra le tante feste per la caduta del confine con la Slovenia a cui abbiamo partecipato, questa di Ponte Clinaz, una sperduta località sul corso superiore dello Judrio, è stata certamente la più bella e spontanea: niente autorità, niente discorsi ma solo un clima di gioiosa adesione e di allegria popolare. In mezzo al ponte si incontrano e si abbracciano i primi doganieri italiani e jugoslavi che presidiavano questo remoto valico, mentre intorno a loro saltano e ballano gli Skrati, i folletti del folklore sloveno.

Un Babbo Natale sloveno a cavallo e uno italiano su un carro portano regali a tutti i bambini.

Da quanti anni non si vedeva un cavallo qui?

Si mangiano salsicce e crauti e si beve vin brulè, e si compra per ricordo uno strano “braccialetto” che altro non è che una fettina della sbarra di confine.

Ma il momento più significativo, quello che tutti aspettano, è la recita dei “Contrabbandieri sullo Judrio”, giunta ormai alla trentesima replica. Questa nell’intenzione della regista dovrebbe anche essere l’ultima, proprio per suggellare la scomparsa definitiva di ogni barriera sulla valle che ha sofferto più di ogni altra per l’esistenza di quel confine che la taglia così brutalmente a metà.

In attesa di passare

Si narrano in chiave comica le vicende di vita quotidiana dei valligiani su entrambe le sponde dello Judrio negli anni Cinquanta-Sessanta, quando erano costretti per necessità a fare un piccolo contrabbando transfrontaliero: una severa poliziotta jugoslava e un finanziere italiano eseguono i controlli doganali tra l’ilarità del pubblico che è chiaramente molto coinvolto dallo spettacolo.

“Nonno, che sarà per noi la nuova Europa?” “L’Europa sarà come noi la faremo!”

La compagnia teatrale, “Etno-gledališka skupina Kontraband čez Idrijo” viene da Kambreško, un paesino sloveno arroccato proprio sulla cresta del monte sopra di noi. La sua animatrice è la vulcanica Jožica Strgar, classe 1956, che ha acconsentito ad approfondire l’argomento “confine” invitandoci a farle visita a casa.

Jožica Strgar

L’intervista con Jožica, per nulla formale, si snoda dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio, mettendo a dura prova la mia capacità di sintesi. Il “lavoro” viene intervallato, secondo la buona tradizione dell’ospitalità slovena, da numerosi momenti adatti a ritemprare il fisico: tè con la grappa (che profuma di ciliegie), caffè, brulè, salsicce con i crauti, strudel di mele! Seduta accanto alla grande stufa nella sua casa-museo, dove vive con il marito Ivan, Jožica mi racconta un po’ la sua storia: “’Ho sempre fatto lavori etnologici come la raccolta di foto e vecchi documenti, andando a cercarli casa per casa, mentre mio marito si è dedicato alla ricerca dei reperti della prima guerra mondiale. Molti si rivolgono a me per cercare le origini delle proprie famiglie. Queste sono cose che ti riempiono l’anima. Invece l’Associazione Turistico-Ricreativa e Teatrale Globočak è nata nel 1999. La prima rappresentazione di Kontraband čez Idrijo l’abbiamo fatta il primo maggio 2004, insieme agli attori del Beneško gledališče, la storica compagnia teatrale delle valli del Natisone: portiamo in scena storie vere della valle dello Judrio, storie che mi sono state raccontate dalla gente di qui, solo incorniciate da un po’ di umorismo. Non a caso lo abbiamo chiamato “una tragicommedia”.

Folla alla rappresentazione

Ma parliamo un po’ del confine e del contrabbando: “Il confine è stato un peso, una maledizione, ma la vita non si è certo fermata. Quello che si faceva un tempo qui sullo Judrio non possiamo chiamarlo contrabbando, non era per arricchirsi, serviva solo a riempirsi un po’ lo stomaco, a sopravvivere insomma. Noi portavamo in Italia burro, uova, sigarette ma soprattutto grappa. Era consentito portare 6 uova, mezzo kg di burro e solo mezzo litro di grappa, ma figurarsi se questo limite veniva rispettato!Si facevano qui a Kambreško litri e litri di grappa perché c’erano tante di quelle susine…Con due litri di grappa potevi comperare un po’ di tutto: due kg di riso, una o due conserve, un paio di ciabatte, qualche attrezzo da lavoro che qui non si trovava. Si faceva esclusivamente baratto, non si usavano soldi. Ci si ingegnava a nascondersi la roba addosso, la grappa nelle borse dell’acqua calda, le donne avevano gli orli delle gonne con un doppio fondo…

Subito dopo la guerra chi era emigrato all’estero, di solito clandestinamente, non poteva spedire nulla ai suoi familiari in Jugoslavia e così andava a finire che mandava la roba a qualche parente in Benecìa, cioè nelle valli del Natisone. Ci volevano mesi per portare tutto di qua, perché era consentito andare in Italia solo quattro volte al mese. Anche quello era considerato contrabbando! Ma che cosa vuoi che mandassero quei poveretti, magari dei vestiti usati. Ricordo la delusione dei vestiti che venivano dal Sudamerica e che da noi non si potevano indossare e nemmeno riadattare, avevano il colore dei pappagalli…e quei soldi grandi come lenzuola che non valevano niente!”

Personaggi e interpreti

Per andare a piedi da Kambreško a Tribil di Sopra ci si impiega circa un’ora e mezza, bisogna scendere nel fondovalle e poi risalire dall’altra parte sul crinale; negli anni Sessanta Jožica ci andava una volta al mese con la madre. Ogni volta compravano circa dieci kg di farina di mais. “Quella era compito dei bambini portarla, me lo ricordo bene io. Quando si arrivava di là a noi bambini davano una fettina di pane bianco e un pezzetto di mortadella, così sottile che attraverso ci vedevi Castelmonte, e un bicchiere di vino dolce di Puglia, ce l’ho ancora in bocca quel sapore. C’erano due negozi a Tribil e uno a Gnidovizza, trovavi tanta di quella roba che non te la puoi nemmeno immaginare, appeso al soffitto e alle pareti c’era di tutto, di tutto. Di qua in Jugoslavia non c’era lavoro, c’era miseria, finché non hanno fatto le strade e ingrandito le fabbriche giù in fondovalle, sull’Isonzo. Erano i primi anni Settanta. Allora la gente qui ha cominciato a lavorare in fabbrica e ad avere un po’ di soldi, e il “contrabbando” non serviva più .”

Questo confine sullo Judrio nel passato non ha mai diviso la gente, che anzi per secoli si è sempre mescolata. Tutte e due le nonne di Jožica erano venute dalle valli del Natisone, ad esempio. “Qui c’erano dei grandi contadini – racconta ancora Jožica – serviva tanta manodopera per i lavori dei campi, soprattutto per la raccolta delle susine e dell’uva. I Beneciani venivano a lavorare qui ed erano anche ben pagati. La frutta cresceva sul lato soleggiato della montagna, verso l’Isonzo, e veniva esportata fino a Vienna, con la ferrovia. Fino al 1918 eravamo sotto l’Austria, poi è arrivata l’Italia e il fascismo. E’ arrivato anche l’Ente per la rinascita delle Tre Venezie, che ha concesso mutui a tasso bassissimo per poi aumentarlo subito dopo: così molte case sono state confiscate, e la gente ha dovuto abbandonarle così su due piedi, portando con sé solo lo stretto necessario. Dopo due giorni sono arrivate famiglie italiane a occupare quelle case. Il fascismo aveva proibito le usanze slovene e soprattutto l’uso della lingua slovena in pubblico, ma i bambini lo sloveno lo imparavano a casa e sapevano benissimo dove si poteva parlare e con chi. I problemi veri per noi sono nati dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947 per l’esattezza.” Dopo il Trattato di Londra del febbraio 1947, il confine tra Italia e Jugoslavia viene di nuovo stabilito lungo il corso dello Judrio, ma la guerra fredda ormai in corso rende ora quel fiume un muro invalicabile.

Jožica continua: “Mentre poliziotti e finanzieri non hanno mai creato tensioni, i militari ci hanno reso la vita molto difficile. Se in paese arrivava qualcuno da fuori dovevi correre subito in caserma ad avvertire, altrimenti erano guai.

Tra i militari c’erano anche quelli dei servizi segreti. E tutti sanno che i soldati di guardia al confine, che provenivano principalmente dal Sud della Jugoslavia, dalla Macedonia o dal Kosovo, prendevano sette giorni di licenza se riuscivano a fermare chicchessia, e quindi erano particolarmente zelanti. Devi immaginare che una volta tutto il pendio del monte era pulito, e che in una fascia di 500 m dal confine tutti gli alberi erano stati tagliati per poter controllare ogni spostamento. Non c’era il telefono ma se uno fischiava in fondovalle tutti lo sentivano, non ci si poteva azzardare a passare il confine dove non c’era il valico perché i soldati avevano l’ordine di sparare a vista.

Noi siamo cresciuti con questo nella testa, che la polizia e i soldati ci proteggono dal pericolo che viene dall’Italia. “Se ci siamo qui noi potete dormire tranquilli” – ci dicevano di continuo. Qui da noi si diceva che nella valle dello Judrio erano tutti fascisti e quindi nemici. Non potevamo crederlo, perché avevamo dei parenti in Benecia che ci colmavano di attenzioni quando facevamo loro visita.”

Raccogliendo la preziosa testimonianza di Jožica capisco sempre più a fondo la gioia per la caduta del confine mista quasi a incredulità. Forse siamo andati a così tante feste perché quasi non riusciamo a credere che sia vero. “Oggi molte cose sono difficili da immaginare -conclude Jožica – anzi per i giovani quello che scriverai sarà come una favola. Ogni centimetro di questo confine ha una storia che si può raccontare a puntate, e ferite che sono difficili da rimarginare, e molti di quelli che vivono qui hanno ancora paura di parlare. Io dico che noi, che siamo nati dopo e non abbiamo colpa, abbiamo il dovere di superare tutto questo.”

© Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO”