Un pugno di terra del Caucaso

Riccardo Ruttar rievoca la vicenda di suo nonno Mateus che partito da una frazione di Drenchia alla fine dell’Ottocento finì per trovare casa e lavoro a Vladikavkaz in Russia. Una storia emblematica di un’epoca in cui non c’era “nessun maledetto confine nella testa della gente”. Hier lesen Sie die deutsche Fassung 🇩🇪

Sul quindicinale Dom, di Cividale, seguo con particolare interesse una rubrica dedicata ai paesi (uno per uno!) delle valli del Natisone, dove la parte delle interviste è a firma di Riccardo Ruttar. Invidio infinitamente il collega per la sua conoscenza delle persone e del territorio, e saputo che è originario di Drenchia, proprio sul confine, trovo il coraggio per chiedere all’intervistatore un’intervista per la mia serie. Mai avrei potuto immaginare quanto lontano mi avrebbe portato…

Riccardo Ruttar mi accoglie con grande cordialità e con la malcelata soddisfazione di chi per una volta tanto è “dall’altra parte del registratore” e non dovrà poi “sbobinare”. “Vuoi sapere del confine?”, mi dice – E io ti racconterò una storia di quando non c’era nessun maledetto confine nella testa della gente, la storia di mio nonno Mateus Ruttar, nato nel 1847 a Clabuzzaro/Brieg, una delle tante frazioni di Drenchia.”

Da Drenchia al Caucaso

 Mateus fa il venditore ambulante (guzirovec), e con il suo passaporto dell’Austria-Ungheria gira e lavora attraverso tutta l’Europa. Vende immagini religiose, specchi, pettini, fiammiferi e altre chincaglierie soprattutto in Slovenia, ma anche in Stiria, in Moravia, in Polonia.

Mateus Ruttar

A Varsavia impara il russo e a questo punto gli si apre davanti tutta la Russia. La gira in lungo e in largo finché nel 1875 capita, con altri due amici delle Valli, nel Caucaso, che gli piace molto perché gli ricorda la sua patria. I tre acquistano 85 ettari di terra vicino a Vladikavkaz e iniziano la costruzione di una fattoria. Nel 1876 Mateus torna a Drenchia per sposarsi con la fidanzata Maria Jurman, e porta con sé nel Caucaso le promesse spose degli altri due amici e altri parenti disposti a trasferirsi. Così viene fondato un nuovo paese, che prende il nome di Italijanski Hutor.

Il portone della fattoria Italijanski Hutor

Grazie alla visita di due viaggiatori sloveni, nel 1899 e nel 1912, che hanno lasciato lunghe e approfondite relazioni, Riccardo ha ricostruito le vicende del nonno e le ha messe a disposizione sul web corredate da straordinarie fotografie ( www.finestrasulmondoslavo.it/ ).

Un vero patriarca

Mateus da vero patriarca ha 23 figli, 11 da Maria e, dopo la morte di questa, dalla seconda moglie Marianna Crisetig, di Iesizza. Uno degli ultimi è Edoardo, il padre di Riccardo, nato a Vladikavkaz nel 1908. Tra il 1900 e il 1915 la piccola comunità slovena è all’apice della sua prosperità, Mateus può definirsi con soddisfazione “benestante”.

La famiglia di Mateus Ruttar nel 1909

In seguito alla Rivoluzione russa perdono però la terra e dopo la morte di Mateus quasi tutti i fratelli e le sorelle Ruttar decidono di tornare in Italia, nonostante nessuno di loro avesse una conoscenza diretta del mondo da cui tanti anni prima erano partiti i genitori. Molti avevano un lavoro, erano sposati e con figli. E portano con sé, dal Caucaso, una manciata di terra, chiusa in un fazzoletto, terra da far spargere sulla propria tomba, secondo l’usanza russa.

“Qui in Italia sono ancora in vita tre persone, di tutte quelle nate laggiù” -mi dice Riccardo. Dal 1930 Edoardo è in Italia. All’inizio della guerra si sposa e ha sette figli. Riccardo nasce a Iesizza nel 1947. Non nasconde la sua nostalgia: “A Iesizza conoscevo ogni posto, era mio! Là tu vivi la libertà perché la respiri, a questo mondo vorresti tornare, anche se sai che non puoi.” Leggete i dettagli qui.

Due righe rosse

Capisco che con la caduta del confine oggi più che mai Riccardo si sente legato spiritualmente al nonno, vissuto quando, come dice lui stesso, “l’immenso mondo slavo non era tagliato fuori e tenuto nascosto e misterioso, e quindi temibile e temuto, da una cortina di ferro”. Mi rendo anche conto che stiamo toccando un nodo molto sensibile, in cui la vita personale di Riccardo e quella della sua comunità si intrecciano strettamente.

Infatti Riccardo così continua: “Se solo si riuscisse a portare a galla nella coscienza della gente quello che abbiamo dovuto soffrire… credo che l’Italia dovrebbe restituirci quello che ci ha tolto! Io sapevo bene quanto la società ci stimava inferiori. Ti racconterò solo questo: ero alle elementari, e il maestro mi ha bacchettato sulle nocche perché avevo parlato in sloveno con mio fratello durante la ricreazione. Vedo ancora davanti a me la pelle che si solleva in due righe rosse, e sento la voce di mia nonna, a casa, che mi dice che bisogna imparare a guardare basso. Io ho trascorso l’adolescenza lontano da casa, perché ho studiato in seminario, e se da un lato in tanti anni avevo quasi perso il mio dialetto natale, dall’altro quando sono tornato non avevo più paura di prendere posizione!”

Riccardo mi dice di aver recuperato solo da adulto la sua autocoscienza di appartenente alla minoranza slovena. Maestro in paesi di confine, negli anni 70 insegna a Drenchia, a Uccea, Fusine e Camporosso.

“L’identità veniva snaturata in modo sistematico, veniva vista come negativa una cosa, la lingua, che è oggettivamente positiva. Allora come fai a tacere? Sentivo la voglia di contribuire a riportare dignità alla mia gente, un’indignazione, dentro, di fronte a un delitto fatto a tutto un popolo. Mi pareva un sistema di annientamento.”

Una lunga discriminazione

Ruttar si laurea a Torino in psicopedagogia e nel 1979 inizia a lavorare allo SLORI (Istituto Sloveno di Ricerca). Una delle sue opere più significative è la ricerca “I diplomati della Slavia” (Cividale 1999) dove tra l’altro si vuole verificare se esista, o meno, la coscienza di far parte di un particolare gruppo etnolinguistico. Ascolto le analisi psicologiche della complessa situazione e trovo che siano le migliori e più convincenti mai sentite, per chiarire il rapporto conflittuale dell’abitante della Benecia con la propria lingua, che spesso appare oscuro a chi l’osserva dal di fuori, come incomprensibili appaiono le incessanti polemiche che lo accompagnano.

“La gente delle valli – dice Riccardo – è stata discriminata e vilipesa nei suoi diritti per 150 anni; le è stata tolta la memoria storica, il senso di appartenenza a una comunità strutturata, e ciò ha minato alla radice la sua identità e la coesione del gruppo.”

Infatti, oltre alle due guerre mondiali, questo territorio ha subito la violenza della snazionalizzazione fascista e, nel secondo dopoguerra, l’attività perversa della Gladio e il dissanguamento prodotto dall’emigrazione e dal tracollo demografico( la popolazione in 80 anni si è ridotta di 2/3, passando da 17.500 nel 1921 ai 6000 di oggi). Essere e dichiararsi sloveno assumeva un significato politico, perché le pretese territoriali di Tito accampavano le loro ragioni proprio nel linguaggio sloveno locale.

Una confusione voluta

“Ma la Slavia – puntualizza Ruttar – già orograficamente rivolta verso il Friuli, per secoli fedele alla Repubblica di Venezia, avversa all’Austria nel Regno Lombardo-Veneto, soggiogata dal Regno dei Savoia, sebbene umiliata dal fascismo, non poteva non vedere come un immane pericolo l’annessione a Belgrado. Meglio professarsi italiani, se riconoscersi sloveni comportava il rischio di cadere sotto la sovranità della Jugoslavia. Purtroppo l’aggettivo “sloveno” ha assunto un significato equivoco proprio perché si è voluto artatamente confondere i concetti di “nazionalità”/appartenenza etnolinguistica e “cittadinanza”/appartenenza allo Stato, per cui l’attributo “sloveno” veniva inteso come antitetico a “italiano.”

Un aut aut dunque: o sloveno o italiano. Così il valligiano, oggettivamente sloveno e anche italiano, veniva costretto a rinunciare ad una delle due alternative: una situazione difficile da sostenere.

“Ma siccome l’evidenza della diversità non era eludibile – continua Riccardo – ecco nascere la fantasiosa ricerca di definizioni generiche e universalizzanti come “slavi” o particolaristiche fino ai neologismi come “natisoniani”. In pratica la gente slovena delle valli del Natisone rimaneva una “comunità senza nome”, appunto priva di identità. La violenza e l’opera snazionalizzatrice delle istituzioni maggioritarie, alla fine, hanno condotto molti “sloveni” a divenire i principali e peggiori nemici di se stessi quando è subentrato il meccanismo nevrotico, ben noto in psicanalisi, che si chiama “identificazione con l’aggressore”. Non potendo manifestare come valore la propria vera identità si assume quella forte e chiara del dominante, quella italiana, diventando un nemico fanatico e più violento degli stessi aggressori. La forza politica dominante nel dopoguerra d’altronde ha fatto di tutto per alimentare l’assioma che portava ad identificare lo sloveno come comunista, quindi titino/iugoslavo, e di conseguenza antiitaliano, basandosi sull’impostazione ideologica manichea in cui la Iugoslavia rappresentava l’essenza del male. “

Conquiste culturali

Come vede Riccardo Ruttar le prospettive presenti? “Da ricercatore, che ha fatto della Slavia il centro dei suoi interessi e della sua passione per tre decenni, mi sono abituato a guardare in faccia la realtà. La storia ci ha condizionati in modo micidiale, tuttavia la comunità slovena ha saputo creare al suo interno forze coscienti del valore della propria cultura. Ne sono prova la legge 482/99, che tutela le minoranze linguistiche, la legge 38/01, specifica per gli sloveni in Italia, e soprattutto la scuola bilingue di S. Pietro al Natisone che raccoglie oltre la metà degli scolari della fascia dell’obbligo nel territorio delle valli.

Oggi il maledetto confine della “cortina di ferro” non c’è più e cresce la speranza che anche i più esagitati giannizzeri antisloveni si rendano conto di essere rimasti una patetica retroguardia in un’Europa che marcia verso l’unità e il rispetto reciproco tra i diversi popoli che ne costituiscono il mosaico.”

© Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO”