I Blumarji di Montefosca

Ogni anno, l’ultima domenica di carnevale, a Montefosca, piccola frazione montana di Pulfero, si ripete la corsa dei Blumarji, le strane maschere che non hanno assolutamente uguali in tutto l’arco alpino orientale, né in Italia né in Slovenia. Hier lesen Sie die deutsche Fassung.🇩🇪

Montefosca/Črni Vrh: sarebbe già sufficiente il nome per andarci. Ma oltre al fascino del toponimo e del Carnevale c’è anche un terzo motivo di interesse: è l’unico paese delle Valli del Natisone in cui vi è ancora una latteria funzionante, dove ancora per le strade si sente l’odore delle stalle e del fieno. Ci sono due modi per andarci. Una lunga lunga strada si inerpica a tornanti da Stupizza su per Zapotocco e Calla.

Solo chi ci sale d’inverno, quando gli alberi sono spogli e nessun ostacolo si frappone allo sguardo, riesce a notare davvero, giunto finalmente in vista del paese, gli straordinari terrazzamenti – vecchi di secoli – che la neve mette in risalto uno ad uno, al di sopra e al disotto di un nucleo di case abbastanza compatto, con la chiesa la scuola e la ex caserma della guardia di finanza in posizione un po’ marginale, segno evidente di maggior giovinezza.

Le terrazze di Montefosca in inverno

Ma molto più bello è salire da Stupizza lungo l’antica mulattiera, ben mantenuta, che percorre il vallone del rio Bodrino e che fino agli anni 50 era l’unica via di accesso. In un’oretta si salgono i trecento metri di dislivello che separano il fondovalle dal paese, e se ne scopre direttamente il cuore arrivando nella bella piazza allungata da cui si dipartono intricate viuzze pedonali.

“Qui da noi ce l’hanno nel cuore il carnevale”- racconta con orgoglio la signora Maria, titolare dell’unica osteria ancora aperta, mostrandoci uno per uno i “pezzi” del costume dei Blumarji: camicia e pantaloni bianchi, calzettoni di lana bianca, scarpette di velluto nere (zeki) simili ai scarpets friulani, tre campanacci da legare sulla schiena con un intricato nodo di corde, fazzoletti colorati e soprattutto l’altissimo e curioso copricapo.

Si tratta di un cappello di paglia dalla cui calotta si innalza una specie di lungo stelo da cui altri steli si dipartono a cascata: il tutto viene ornato con striscie di carta variopinte e rassomiglia a un albero fiorito. Non per niente il nome Blumarji sembra derivi da Blume, fiore in lingua tedesca.

“Una volta non c’erano solo i Blumarji nel nostro carnevale, ma anche tutte le altre maschere tipiche dei buoni e dei cattivi…oggi ormai è rimasta solo questa.”

I Blumarji dovrebbero essere rigorosamente maschi, non sposati e in numero dispari: con una veloce andatura saltellata, scuotendo vigorosamente i campanacci, devono percorrere un itinerario circolare prefissato tra Montefosca e il borgo di Paceida tante volte quanto è il loro numero, aiutandosi con il lungo bastone chiamato pistok per non cadere e sporcare il vestito. Alla fine di ogni giro li attende ovviamente un ben fornito ristoro con cibarie per rifocillarsi e bevande di ogni genere per ritemprarsi!

Dirimpetto all’osteria abita Giuseppe Laurencig, detto Berto, classe 1930. “Venite da me, ci dice, sono solo e ho piacere di parlare un po’. Sono nato qui ma ho trascorso metà della mia vita all’estero: prima in Francia poi in Svizzera e in Germania. Non ci stavo male, sono abbastanza svelto a apprendere le lingue. Però ho voluto andarci con la famiglia, altrimenti la mia vita sarebbe stata sciupata. Sono tornato nel 1991, al momento della pensione: era una cosa che mi ero sempre ripromesso, ma certo non immaginavo di tornare in un paese in cui non si sente più il pianto di un bambino.

Guarda, adesso siamo rimasti in 54. Nel 1939 eravamo in 681, te lo posso dire con esattezza: avevo solo nove anni ma facevo già il sagrestano ed eravamo pagati a “anime”, una lira per anima, quei soldi ho preso, ma erano tanti, eh! Infatti ho aiutato mia sorella che si doveva sposare a comprarsi il corredo! Il paese ha cominciato a spopolarsi nei primi anni 50, infatti la scuola nuova, finita nel 1951, è rimasta aperta solo 3 anni. Dal 1955 al 1970 ogni giorno andava via una famiglia, i vecchi morivano, i giovani erano sempre di meno, il paese in poco tempo è quasi sparito. Negli ultimi 30 anni le cose sono rimaste più o meno stazionarie.”

Di che cosa vivevate, chiedo. “Di allevamento. Noi avevamo tre mucche, al massimo quattro, però avevamo anche un pollaio con 250 polli che ci ha aiutato molto a sfamare la famiglia con nove figli. Chi aveva più di 6 mucche era bohat, un ricco, comunque nessuno ne aveva più di 10 perché non avrebbero avuto comunque fieno a sufficienza. Ogni francobollo di terreno era utilizzato. Le famiglie erano nu-me-ro-sis-si-me (Berto scandisce le sillabe di questa parola), io proprio non saprei dirvi dove dormivano tutti perché qui da noi a differenza del Friuli le case sono molto piccole. Anche la riserva di fieno era tutta nelle mede, tutta fuori, non c’erano i fienili come in Furlania e quando cominciava a soffiare il vento krivac che porta la neve ci si doveva organizzare per non farsi sorprendere dalla nevicata senza il fieno sufficiente per gli animali.

La casa rurale friulana è spaziosa, ha tettoie, fienili, ma qui in Benecia no, le nostre case hanno solo lo stretto indispensabile, anzi l’indispensabilissimo (a Berto piacciono i superlativi e non credo che nel suo caso siano esagerati). Pensate che per fare questa casa ho portato tutto a spalle da Stupizza, era il 1951, avevo 22 anni, allora non esisteva ovviamente la strada ma solo la mulattiera che avete fatto anche voi, è un’ora di cammino. Solo la calce si faceva qui sul posto. Dal Natisone portavamo su la sabbia che era preziosissima, non doveva scapparne via neanche un granello, e i coppi, quelli che sono ancora su, me li sono portati tutti a spalla, 60 coppi alla volta, sono 60 kg, una settimana per fare tutto il tetto. Era un carico pesante, duro, ma ha coperto un focolare. Lungo il sentiero ci sono dei muretti detti pocivagnach (“riposatoi”) dove potevi fermarti appoggiando il carico senza togliertelo dalle spalle, tu non potevi togliertela la roba dalla schiena, e se volevi bere un po’ d’acqua qualcuno ti doveva aiutare.”

Come mai a Montefosca esiste ancora una latteria, viene ancora fatto il formaggio, si sente ancora l’odore delle stalle e del letame? Berto risponde: “E’ perché qui c’è ancora un’azienda agricola con più di 16 mucche da latte e numerose capre, così anche altri tre contadini sono riusciti a mantenere le loro stalle: Milio ha tre mucche, Vito ne ha altrettante e Delchi ne ha 5. Loro non sono andati a cercare l’avventura all’estero e hanno continuato a fare i contadini. Negli anni 50 c’erano 450 mucche e la latteria produceva 28 kg di burro e altrettanti di formaggio al giorno. 
Adesso lavora solo 4 quintali di latte al giorno, se ce ne fosse anche poco di meno non converrebbe tenerla aperta. Il casaro viene qui ogni giorno alle sei del mattino dalla Slovenia, abita vicino a Caporetto, oltre l’Isonzo, e ha un’azienda agricola bella grossa dove fa il formaggio in casa. Volete assaggiare la sua ricotta?” Berto si alza, va in cucina e ritorna con un barattolo di squisita ricotta bianca. “Io vi do una forchetta, ma sappiate che tradizionalmente, prima di comprarla, la ricotta si assaggiava immergendovi tre dita. Prendete, su, non fate complimenti! Je dobra(è buona)! Poi si mandava giù un bicchierino di schnaps, se lo bevevi di un fiato voleva dire che lo apprezzavi e ne volevi un altro, se invece lo sorseggiavi voleva dire che non ti piaceva!” Ma parliamo ancora delle mucche, di che razza erano? “Tutte di razza Bruna Alpina che era la più sana e la più frugale, erano piccole ma avevano abbastanza latte, non si ammalavano facilmente e con le loro gambette sottili riuscivano a pascolare dappertutto, i nostri non sono posti adatti a mucche grosse. In primavera avanzata tutti portavano le loro mucche al pascolo, ogni famiglia aveva il suo pascolo recintato nella Konjska dolina, la valle dei cavalli, a circa mezz’ora di cammino dal paese, sulla strada per le Farcadizze, se ne vedono ancora le tracce. 
C’era un profumo nel paese, di erba, di fiori, di mucche, di polenta e anche, sì, di letame! Vicino a ogni stalla c’era ovviamente il letamaio, il letame era di prima qualità, di quello che profuma. Era un materiale preziosissimo e quando era maturo veniva portato sui campi, sugli orti e sui prati.

Ma il profumo del fieno del monte Ioanaz, quello era davvero speciale, era un piacere dormire vicino a quel fieno. Montefosca adesso sarebbe un giardino, se ci avessero aiutato almeno un po’ quella volta, quando tutti ancora volevano restare, ma lavorare a mano non era più possibile e le macchine agricole ancora non le potevi comprare! “

L’ultima sosta, prima di scendere a valle, è da Delchi. Ma lui sta preparando il pastone per le mucche, veniamo accolti dalla padrona di casa nella cucina calda che ci avvolge come una coperta. Le due figlie di Delchi lavorano in fondovalle: una fa la bidella a Pulfero, l’altra lavora come infermiera all’ospedale di Cividale. “26 chilometri di sola andata, e in più con il mio lavoro devo fare turni. Il brutto é fare la strada di notte, d’inverno, con il ghiaccio e con la neve. Finché sei sul piano ancora ancora…ma scendendo cali un etto a ogni curva!” © Antonietta Spizzo per “Il Nuovo FVG” 2005.