Emilio Bulfon di Valeriano, l’archeovignaiolo

Nuove speranze per vecchi vitigni

Emilio Bulfon a Valeriano ha fatto della ricerca e del recupero dei vecchi vitigni il suo ideale di vita, e dimostra che coltivare queste varietà può essere non solo una passione ma anche fonte di reddito e di grandi soddisfazioni.

Aramon, Bravbana, Cjanorie, Codelungje, Coneute, Cipro, Forgiarin, Fumàt, Givàn, Glere, Curvìn lustri, Negràt, Piculìt Neri, Pignûl, Ribolla Spizade. E ancora: Sciaglìn, Uarnasse, Ucelùt, Verdisòt…sono solo alcuni delle decine e decine di vitigni friulani che con i loro nomi strani e suggestivi compaiono sul Vocabolario Pirona alla voce “Ùe”.

E se probabilmente molti sono estinti (e il loro germoplasma si è perduto per sempre) o forse sopravvivono misconosciuti qua e là in qualche antico esemplare, alcuni di essi invece sono rinati a nuova vita grazie all’opera tenace e appassionata di Emilio Bulfon, nativo di Percoto ma ormai da decenni operante “di là da l’aghe”, a Valeriano, un piccolo paese in comune di Pinzano.

Nella cantina di Bulfon

Alla fine del borgo due grandi colonne, un’insegna, una casa di legno scuro con una profusione di gerani rossi ci dicono che siamo arrivati a destinazione: non ci troviamo in uno dei tanto frequenti e anonimi capannoni che più che a una cantina fanno pensare a una fabbrica, ma in un ambiente ben curato e personalizzato che rivela solo nel suo interno tutte le attrezzature del mestiere: botti di ogni tipo e dimensione, e pile di cassette, alcune già pronte per essere spedite… in America!

Emilio Bulfon can la sua famiglia

Emilio Bulfon, che gentilmente ci dedica il suo tempo pur essendo in piena attività di vendemmia e come se non bastasse nel vortice di Friuli DOC, è un uomo dalla voce dolce e dall’aria pacata, ma che certo deve possedere una determinazione di acciaio se ha potuto ottenere nel tempo un simile risultato, e creare un’azienda vinicola moderna ed efficiente puntando esclusivamente sulla riscoperta dei vecchi vitigni. Qualcuno parlando di lui lo ha definito, con un’espressione azzeccata, un archeovignaiolo.

Sono sette i vini che attualmente produce: tre bianchi, lo Sciaglìn, il Cividìn e l’Ucelùt, e tre rossi, la Cjanorie, Il Piculìt Neri, e il Forgiarìn, a cui si è aggiunto recentemente un vitigno di origine istriana, il Moscato Rosa.

 

La storia del salvataggio

Mentre seguiamo Emilio Bulfon nella cantina, decorata da lui stesso con le immagini dei vecchi vitigni, la sua storia comincia a dipanarsi: “ Io sono originario dei Roncs di Percût, e la mia famiglia ha sempre lavorato nel settore vinicolo, infatti i miei nonni e mio padre erano gli amministratori dei Kechler a San Martino di Codroipo. Io sono nato in cantina, praticamente. Quando nel ’64 mi sono trasferito in questa zona per lavoro, mi hanno incuriosito certe varietà di uve che non conoscevo e così mi sono messo ad andare in giro per le colline di Castelnuovo, Costabeorchia, Pinzano, alla ricerca di ceppi ormai abbandonati oppure coltivati solo dalle poche persone anziane rimaste: in tempi di miseria, il vino era un alimento prezioso. E questa è stata la salvezza dei vitigni! Devo dire anche che ho avuto la fortuna di conoscere il prof. Antonio Calò, direttore dell’istituto Sperimentale per la Viticoltura a di Conegliano, e il dr. Ruggero Forti, ampelografo e direttore dei Vivai di Rauscedo. Loro mi hanno sostenuto e aiutato nella ricerca, che è stata lunga e difficile: portavo le gemme a Rauscedo dove selezionavamo i ceppi più sani e cercavamo i portainnesti più adatti per i vari terreni. Pensate che quelle viti secolari che avevo ritrovato – e che in parte esistono ancora – avevano quasi sempre il piede franco, cioè non erano state innestate sull’americano, come si è fatto dopo il 1868 per contrastare la fillossera, un insetto che attacca le radici.

Abbiamo fatto degli impianti nuovi mettendo 5000 viti per ettaro e abbiamo visto che ne venivano fuori prodotti molto validi. Così sono nate anche le prime schede ampelografiche con cui abbiamo dimostrato che questi vitigni esistevano davvero e non erano creazioni della nostra fantasia. La stampa ha cominciato a interessarsi delle coltivazioni e pian pianino (ma proprio pianino), in mezzo a mille difficoltà (ma senza alcun dubbio da parte mia, altrimenti avrei cambiato strada da un pezzo), le cose sono andate avanti, finché nel 1987 ho ricevuto una medaglia d’oro dalla provincia di Pordenone come riconoscimento del mio lavoro ed è stato pubblicato il mio libro “Dalle colline spilimberghesi nuove viti e nuovi vini” che ha dato un ulteriore impulso alla valorizzazione del territorio. Attualmente su 10 ettari produciamo dalle 65 alle 70 mila bottiglie, a seconda dell’annata.”

I magnifici sette

 Parliamo allora un po’ di questi vini, signor Bulfon, che sono un po’ le sue creature “strappate all’oblio”, e cerchiamo di spiegare i loro nomi antichi.

“Noi abbiamo cercato di valorizzare i vitigni dello spilimberghese, e quindi ci siamo dedicati prima di tutto a quelli. L’Ucelùt faceva parte delle uve uccelline, quelle che si facevano crescere una volta sul limitare dei campi e che per il loro forte tenore zuccherino attiravano gli uccelli che così “lasciavano in pace” le altre colture. E’ un vino passito, ha 15,5 gradi naturali, si abbina bene con i formaggi stagionati ma lo si apprezza molto anche bevendolo da solo. Lo Sciaglìn è un bianco davvero importante, noto già dal XV secolo, e si abbina con crostacei e risotti alle erbe, ma come l’Ucelùt è ottimo anche da solo. Il terzo bianco è il Cividìn, un vino delicato e profumato, già apprezzato nel ‘600 e ‘700. Il mio è stato recentissimamente recensito con molto favore sull’Espresso. Il vitigno che ho recuperato io proviene dalle colline di Navarons di Meduno e probabilmente non ha nulla a che fare con quelli che ancora crescono nelle valli del Natisone. Ha 13 gradi, ed è un gran vino da pesce.

Un grappolo di Scjaglin

Tra i rossi il Forgiarìn è un vino tardivo che nelle annate fredde e piovose ci dà problemi nella vendemmia ma in cambio è ricco di aromi e versatile negli abbinamenti. Prende il nome dal paese di Forgaria, non lontano da Pinzano.

Il Piculìt Neri è in assoluto il più richiesto e non va confuso con altri vini dal nome simile: è un vino rosso ottimo anche fuori pasto, ma consigliato con carni rosse, selvaggina e formaggi stagionati. Il suo nome probabilmente deriva dalla forma minuta degli acini.

Una volta recuperati i vitigni più tipici della zona, il passo successivo è stato il Cjanorie. Il nome sembra derivi da cjane, canna. Il lavoro non è stato difficile come i precedenti perché si tratta di una vite ancora molto diffusa nella zona di Gemona e Artegna. Ha una foglia molto grande e per questo veniva usata per fare pergolati sulle facciate delle case. Se ne ricava un vino rosso di grande carattere, da accompagnare con carni bianche e rosse ma ottimo anche fuori pasto.

Adesso ci stiamo dedicando al recupero del Cordenoss, un rosso validissimo che ho trovato a Castions di Zoppola ma che proviene da Cordenons. Stiamo domandando alla regione di farla inserire a Roma nell’Elenco nazionale dei vitigni italiani e questo permetterà la sua commercializzazione che attualmente non è ancora possibile.”

Legare il vino al territorio

A questo punto vorremmo sapere qualcosa dell’azienda e del suo mercato: “La mia è un’azienda a conduzione familiare, in cui lavorano non solo mia moglie ma anche i miei due figli, che condividono la mia stessa passione, e questo consente naturalmente di ottimizzare il lavoro e l’impegno, in cui non si conoscono né domeniche né feste. In quanto al mercato, a me non interessa tanto andare a cercare la gente, le vendite migliori sono quelle sul posto. Con i clienti devi instaurare un rapporto umano, è la cosa più importante se vuoi che tornino. Una grande parte della nostra clientela è costituita dagli emigranti, che rientrando nella nuova patria dopo le vacanze vogliono portare con sé un pezzetto del loro territorio natale.

La chiesetta di santa Maria dei Battuti a Valeriano

Avete visto, vero, arrivando qui a Valeriano, quella chiesetta che è quasi il simbolo del paese: è l’oratorio di Santa Maria dei Battuti, famosa soprattutto per quella meravigliosa Natività del Pordenone. Ma ci sono anche sono molti altri affreschi, fra cui un’Ultima Cena del XIV secolo. Io ho scelto di riprodurne una parte sulle etichette dei miei vini, in modo che faccia da legame e da filo conduttore tra me, i vini e l’arte della mia terra. Ritengo che il legame tra vino e territorio sia una delle cose più importanti e che sarà la chiave del mercato nel futuro.”

Un futuro promettente

Infatti la domanda di rito conclusiva riguarda proprio il futuro… “Uno dei miei obbiettivi principali è la valorizzazione del territorio, che alla fine significa valorizzarne la cultura in tutti i suoi aspetti. Qui secondo me sta il futuro dell’agricoltura. E il territorio naturalmente va rispettato e non sfruttato né violentato. La storia e la cultura sono un valore che si aggiunge al vino: qui vengono turisti da tutta Europa appositamente per vedere i vigneti, fare la degustazione e visitare la chiesetta dei Battuti.

L’affresco dell’Ultima Cena, riprodotto sulle etichette dei vini Bulfon

Bisogna collegarsi tra produttori e far girare la gente sul territorio: qui da noi oltre ai vini ci sono squisiti formaggi, asparagi, salumi… Questo è il segreto per vincere la concorrenza dei grandi produttori, che a me non fanno nessuna paura. Consiglierei senz’altro a un giovane di lavorare nell’agricoltura, perché di possibilità ce ne sono parecchie, a condizione però che sia veramente appassionato. Certo, se parte con un po’ di terreno è meglio, ma se sceglie bene le coltivazioni non ne serve poi molto. Poi bisogna rinnovarsi in continuazione e non trascurare le moderne tecnologie di produzione. Quanto poi ai vitigni autoctoni, c’è ancora tantissimo lavoro da fare! Di molti vitigni non sono nemmeno state fatte le prove per vedere se il loro prodotto è valido. La ricerca è appena cominciata!”

©Antonietta Spizzo 2006 per “IL NUOVO”.