Una donna di frontiera

Licia Chersovani, classe 1923, triestina e slovena, partigiana e antifascista, ripercorre una vita attraversata dalle lacerazioni del passato sul confine orientale e analizza le contraddizioni del presente.

Incontro Licia Chersovani, donna della Resistenza triestina, classe 1923, pochi giorni prima del 25 aprile, con addosso ancora l’amarezza per il risultato delle elezioni politiche e amministrative. E’ da molto che volevo una voce dichiaratamente di sinistra nelle mie storie di confine, e adesso l’ho trovata grazie alla ricercatrice Gabriella Musetti, che assieme a Silvana Rosei ha curato due splendidi ed emozionanti volumi intitolati “Donne di frontiera – Vita società cultura lotta politica nel territorio del confine orientale italiano nei racconti delle protagoniste”.

Il luogo dell’appuntamento è – secondo la buona tradizione triestina – un caffè del centro, dal vago sapore liberty. E’ una mattina piovosissima e ventosa, sono in anticipo e mentre attendo l’anziana signora mi sento non poco in colpa per il disagio che le ho causato costringendola a uscire di casa con un simile tempaccio. Ma quando Licia arriva mi trovo davanti una splendida ottantenne piena di grinta e mi rendo conto che è sincera quando afferma che non se ne sarebbe stata comunque chiusa in casa. Si accende una sigaretta, ordina un caffè e inizia subito a raccontare della sua vita.

Slovena e italiana

“Io sono nata a Trieste nel 1923. Se proprio devo definirmi, ti dirò che sono veramente “di sangue misto”. La nonna materna era carnica, di Ampezzo, il nonno era di Pieris sull’Isonzo. La famiglia di papà invece era slovena. Il nostro cognome originario era Kersovan, che poi il fascismo ci ha cambiato in Chersovani. Noi parlavamo indifferentemente lo sloveno e l’italiano, il problema nazionale non era sentito affatto a casa nostra. Un’ulteriore definizione: eravamo una famiglia proletaria. Mia madre era levatrice, mio padre infermiere marittimo. Tutta la nostra famiglia era di sinistra, era un ambiente antifascista e filocomunista. Mio padre ha partecipato alla Resistenza ed è stato anche processato per questioni legate all’insurrezione di Trieste.

Siccome ero piuttosto brava a scuola, con grandi sacrifici sono riusciti a farmi andare al liceo classico. Il mio primo aperto gesto di ribellione al fascismo è stato in terza liceo: dovevamo partecipare ai cosiddetti “ludi juveniles”, che consistevano in esercizi ginnici e in un tema di esaltazione del fascismo. In quel giorno ho marinato la scuola: avrei corso il rischio di andare in finale con un tema di bugie!”

Nel 1941 Licia si iscrive a Padova alla facoltà di Medicina e fa cinque esami. A Padova entra in contatto con l’organizzazione comunista clandestina e in particolare conosce Laura Petracco (pure triestina), studentessa di lettere.

Militante clandestina

“Eravamo giovani e entusiasti, e talora commettevamo delle gravi imprudenze. – continua Licia – Molti di quel gruppo persero la vita: Laura e suo fratello Silvano furono impiccati dai nazisti nel 1944 – lui a Prosecco, lei in via Ghega, davanti al conservatorio – altri furono deportati, Flavio Lazzarini si suicidò piuttosto che finire nelle mani dei fascisti. Sono episodi che ti segnano la vita e non puoi più dimenticare. Si viveva sotto una cappa di piombo. Trieste dall’8 settembre 1943 non faceva parte della Repubblica di Salò, ma era la capitale della Operationszone Adriatisches Küstenland, la Zona di operazioni del Litorale Adriatico, sotto il diretto controllo dei nazisti.

Risiera di San Sabba, triste simbolo di quegli anni

Verso la fine del 1944 entrai in un altro gruppo clandestino. Il punto cruciale fu il 1° maggio del 1945. Non so descrivere la contentezza, l’entusiasmo perché la guerra era finita. Comunque già dall’autunno 1944 si era posto il problema dell’appartenenza nazionale. Noi volevamo la Jugoslavia non per questioni di nazionalità ma solo perché ci appariva come avamposto dell’Unione Sovietica che per noi significava una società nuova e più giusta.

Il problema nazionale – confesso questo mio limite – non l’ho mai capito, non pensavo che si potesse avere questa forte identità. Per me un essere umano è sempre stato un essere umano e basta, il problema della lingua o della pelle era indifferente.”

Ogni giorno in piazza

Subito dopo la fine della guerra Licia, convinta di doversi dedicare completamente alla politica, lascia perdere gli studi di Medicina. La situazione politica a Trieste in quegli anni era incandescente, come lei stessa ricorda: “Eravamo in piazza ogni giorno. Il nazionalismo italiano era forte, e altrettanto lo era il comunismo e il nazionalismo sloveno. Le tensioni passavano anche attraverso le famiglie. Era insieme uno scontro nazionale, ideologico e politico. Per nove anni, dal 1945 al 1954, a Trieste e provincia abbiamo avuto il GMA, il governo militare angloamericano.

Nel 1948, un gruppo di noi ha deciso di studiare in un paese socialista e con l’aiuto del partito ho cominciato a studiare giornalismo a Praga. Praga era un città meravigliosa. E’ stato un bel periodo, anche se breve, di cui ricordo in particolare la grande amicizia con gli esuli spagnoli. Studiavamo la lingua ceca, e il russo.”

Licia si interrompe e sorride ricordando la Pikovaja dama (La donna di picche) di Puškin che leggeva in lingua originale.

Espulsa dal partito

Poi riprende: “Il 1948 è stato un anno cruciale anche perché c’è stata la risoluzione del Cominform sulle deviazioni nel partito comunista jugoslavo. Devo dire che inizialmente io ero d’accordo con quella risoluzione, che anzi aveva reso ancora più salda la mia fiducia nell’URSS, né la ritenevo un’interferenza arbitraria negli affari interni di un altro paese socialista. Per me quella parte del mondo che allora costituiva il blocco sovietico era un territorio senza frontiere, un’unica società. Io e i miei amici di Praga eravamo cominformisti convinti, ma non eravamo d’accordo su come veniva condotta la battaglia. Non c’era una discussione, un dibattito ideologico serio, ma solo sospetti e “babezzi”, come si direbbe in triestino. Scrivemmo un documento con le nostre idee, lo portammo a Roma in via delle Botteghe Oscure e da lì a non molto fui espulsa da Praga e dal partito. Era il 1950. Era un terribile sistema di emarginazione verso i compagni non allineati. Molti compagni mi hanno tolto il saluto, ho vissuto in un isolamento terribile. Insomma non sono una Jasagerin, una che dice sempre di sì.

Licia Chersovani negli anni Ottanta, alle sue spalle “Guernica”

Una volta tornata a Trieste, mi sono iscritta e stavolta laureata in Fisica, ho avuto subito un incarico di laboratorio di Fisica all’Università e poi ho insegnato all’Istituto Tecnico Industriale Volta di Trieste. Questo lavoro mi piaceva moltissimo, comunque non ho mai smesso di impegnarmi in campo politico e sociale. Ho anche lavorato per molti anni come ricercatrice all’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione”.

Un’analisi spietata

A questo punto il discorso si sposta sulla situazione del presente. Licia dice: “Il confine è stato cancellato, ma vorrei capire che cosa significa questo nell’intimo delle persone, se si rendono conto che ormai viviamo in un mondo senza confini sì, ma non migliore, dal sistema sociale abbastanza rovinoso. L’integrazione dell’Europa avviene verso un modello consumista e capitalista che si sta estendendo a tutti i paesi dell’ex area socialista. Vedo oggi una società molto appiattita, una destrutturazione culturale a cui è difficile trovare gli anticorpi. Importa più che ci sia il confine aperto per risparmiare sulle sigarette e sulla spesa, sono questi i “valori” che contano!”.

Tuttavia nelle comunità che hanno vissuto sul confine rimangono ancora ferite aperte dal tempo della guerra e che è inutile far finta di non vedere. “Sì – dice Licia – ci sono stati degli scontri terribili, c’è stato un decennio durissimo, e anche dopo; perché queste ferite vengano curate ci vuole un’analisi storica spietata di tutti verso se stessi e verso gli altri.

Chi la inizierà questa analisi? Dovrebbero farlo le forze di sinistra, ma ahimè non lo fanno. Il PCI non ha rivendicato nemmeno quello che di positivo c’era nel sistema comunista. E poi si dovrebbe stimolare dal basso la ricerca del proprio vissuto attraverso il quale guardare ai problemi generali. Questo dovrebbe farlo la scuola, in modo sistematico, e ne avrebbe la possibilità, ma purtroppo non c’è una spinta dall’interno, al di fuori delle iniziative individuali. La scuola dovrebbe avere un valore preminente nella società ma purtroppo “non conta nulla perché la cultura non viene considerata un valore”.

“Le ultime elezioni – aggiunge – sono state la dimostrazione chiara del livello a cui si trova il paese; io, dico la verità, mi aspettavo una sconfitta, ma non di tali dimensioni; se un uomo come Berlusconi vince le elezioni questo ci dà la misura della destrutturazione culturale e sociale in atto, io qualche volta penso ancora che non sia vero, invece…La svolta a destra molto probabilmente fermerà il tentennante processo di chiarificazione del passato che era appena iniziato. Non ci sono state solo le foibe! Le foibe sono un problema drammatico, reale, ma sono state solo l’ultimo capitolo di una storia iniziata con la persecuzione degli sloveni, la guerra e l’invasione della Jugoslavia. Non si deve dimenticare che i fascisti avevano circondato Lubiana con il filo spinato! E’ triste pensare a quante persone hanno lottato, quante persone sono morte per un modo diverso, migliore, e invece… mi ricorderò sempre di quando sono passata davanti al conservatorio e ho visto gli impiccati… Per questo il 25 aprile, come ogni anno, andrò alla Risiera di San Sabba.”

© Antonietta Spizzo 2008 per “IL NUOVO”