Le viole mammole di Udine

Fuggimmo all’aperto:/le cadde il bel manicotto/adorno di mammole doppie. /O noto profumo disfatto/ di mammole e di petit-gris…” (G. Gozzano, Un rimorso)

Eh sì, ond’ai quasi cent subite” – così esordisce Ines De Marco, detta Blancje, classe 1908, quando andiamo a trovarla nella sua casa di Pozzuolo per parlare di una storia molto lontana e dai contorni quasi fiabeschi, la storia di una passione che ha permesso a una pianta di sopravvivere. Sul tavolo della cucina, in un vasetto, un mazzolino di viole – che somigliano a roselline in miniatura – timidamente profumate in questo marzo freddissimo. Fausta Della Vedova, che ha sposato un nipote di Blancje, mi mostra due grandi foto dove una bella signora dai capelli candidi è ritratta in un giardino in mezzo a una profusione di gigli rose ortensie che quasi la sovrastano: sono i fiori decisamente i protagonisti della scena.

Ines De Marco detta Blancje nel 2006 a 98 anni

In ches fotos lì o eri zovine – interviene subito Blancje- varai vût otante ains… ho sempre avuto la passione dei fiori”. Certo è emozionante parlare con una persona così anziana che può permettersi di definire sé stessa giovane a ottant’anni. Ed è stato proprio per il suo ottantesimo compleanno che i nipoti le hanno regalato un grazioso libretto, “Les violis doplis di Ines Blancje”, dove hanno trascritto in friulano i ricordi della nonna. Fausta ce lo legge a voce alta mentre Ines, seduta accanto alla finestra, ascolta attentamente e annuisce, sottolineando con qualche parola di partecipazione i punti più salienti.

E’ una storia che ci porta indietro di ben più di cent’anni, a quando cioè lo zio di Blancje, Luigi De Marco detto Vigj, lavorava al servizio del conte Filippo Savorgnan di Brazzà nella sua tenuta di Soleschiano. Il conte era un botanico appassionato ed era riuscito a selezionare una viola particolare, a fiore doppio e stradoppio, dal profumo intenso e dal color zaffiro con il centro bianco, che fu chiamata Viola odorata “mammola di Udine”. Ma non basta: nel 1883 vinse il primo premio della Royal Horticultural Society di Londra per una viola doppia color bianco candido e intensamente profumata, ottenuta ibridando la viola di Parma con una viola bianca semplice della sua tenuta nella Maremma toscana. In suo onore fu chiamata “Conte di Brazzà”.

Blancje con il marito e i figli

Vigj probabilmente aveva ricevuto in regalo dal conte alcune piantine che aveva trapiantato nel suo orto e che curava amorosamente in una piccola serra fatta alla buona. Tutte le ragazze di Pozzuolo, ma anche dei paesi vicini, sapevano che Vigj coltivava queste viole “spettacolose” e facevano di tutto per averle. “Violonis a erin!” – dice Blancje. Ma la cosa degna di nota era che né Vigj, prima, né Blancje poi, hanno mai coltivato le viole per guadagno, ma esclusivamente per passione. Lo zio usava ogni cura: con la luna vecchia di maggio faceva delle piantine nuove da trapiantare e per ripararle dal caldo e dal secco le metteva tra gli alberi dell’orto, nella penombra del fogliame. “Sono piante delicate”- ci ribadisce Blancje. Alla fine di agosto le rimetteva nella serra dove nel frattempo aveva cambiato tutta la terra e messo sul fondo mezzo metro di letame: questo serviva a tenere caldo in inverno.

Con tutte queste accortezze ecco che già in novembre Vigj poteva vedere fiorite le prime viole. Erano ancora piccole e per farle diventare grosse e scure Vigj metteva un guscio d’uovo sul bocciolo. A Natale erano tutte belle fiorite e a Carnevale tutte le ragazze ne volevano un mazzetto per andare a ballare. “Quando aprivi la serra veniva su tutto un profumo!” La madre di Blancje andava a vendere le uova in città e portava con sé la ragazzina che vendeva qualche mazzetto di viole in piazza.

Sarà stato il 1925 quando un conoscente del paese suggerisce a Vigj di mandare un mazzetto delle sue viole al re Vittorio Emanuele III, sapendo che la regina Elena aveva un debole per questi fiori. Vigj allora prepara una scatoletta di legno in cui mettere le viole, dopo averle ben avvolte in pezzuole inumidite perché potessero arrivare ancora fresche a Roma. Non era certo una stravaganza perché all’epoca le viole e gli altri fiori, avvolti nel cotone umido o nel muschio, facevano viaggi ben più lunghi, diretti attraverso l’Europa alle corti dei vari sovrani, da Vienna a San Pietroburgo. Il re, ricevute le viole, per essere sicuro che fossero state veramente spedite da Luigi De Marco come era scritto sulla scatola, mandò a sincerarsene i carabinieri di Udine, che arrivando a cavallo nel paese suscitarono non poco scompiglio. Tutti facevano supposizioni su quello che poteva essere accaduto “là di Blanc”. Ma il padre di Blancje, che si fa sul portone, capisce subito di che si tratta e visto che il fratello Vigj è a lavorare, porta i carabinieri nell’orto. Questi rimangono stupefatti nel vedere la serra piena di fiori nel cuore dell’inverno. Il re, ricevuta la conferma e informatosi anche di quante persone era composta la famiglia De Marco, fa inviare a Vigj una somma cospicua per i tempi, ben 500 lire. Alla morte di Vigj le viole furono coltivate da suo fratello Redo e poi, a partire dal 1945, da Blancje, che nel frattempo si era sposata e aveva avuto quattro figli. Con il passare degli anni e dei decenni, la viola bianca era sparita dall’orto di Blancje, e le era rimasta solo la mammola blu.

Blancje nell’aia

E’ a questo punto che la storia di Blancje si intreccia in modo singolare con quella di Mirella Collavini Presot di Rivignano, una vera appassionata di viole che una decina di anni fa è riuscita a rintracciare in un vivaio in Scozia la viola bianca di Brazzà, che era scomparsa dal Friuli e a risvegliare l’interesse per la mammola di Udine, che tra poco sarà tutelata dal marchio DOP. Mirella incontra per caso Fausta e Blancje a una mostra di piante rare a Villa Manin, ma come dice lei stessa “ si sa le cose che ami e che cerchi ti vengono incontro”.

E’ così che Mirella ha ricevuto in regalo da Blancje “le viole del re” e le ha riportate alla ribalta, prima raccontandone la storia con un bellissimo articolo apparso su “Gardenia” nel 2001 e poi con una mostra nel Castello Pralormo in Piemonte nel 2002.

Invito al Dies violae

Raggiungo Mirella nella sua casa di Rivignano: un vecchio palazzo, limonaie, tanti vasetti di viole nell’androne, una ringhiera bianca stile liberty e nel grande salone il caminetto acceso. “Non abbiamo la certezza che sia stato Filippo di Brazzà a selezionare la viola mammola di Udine, perché lui non ne ha mai confermato la “paternità”. Qualcuno sostiene che si tratti di una mutazione spontanea, perché la viola di Parma ha un colore lavanda pallido mentre quella di Udine è molto più scura. La viola di Ines, con quei suoi fiori enormi, dal blu così intenso, probabilmente era un clone più forte di una pianta che potrebbe essere anche stata autoctona. A suo tempo la ditta Rodati di Tarcento ne fece incetta e i fiori partivano per tutte le capitali europee. In Austria e in Gran Bretagna ne tentarono la coltivazione, ma senza successo. Le viole non solo hanno sostenuto un’economia – ne venivano prodotte a migliaia nei vivai– ma erano anche un piccolo ma importante introito per le donne, perché tradizionalmente questo era quasi l’unico guadagno che potevano tenere per sé. E’ un fiore delicato, ghiotto di letame, e veniva piantato sotto i filari delle viti perché potesse beneficiare indirettamente dei trattamenti con lo zolfo e il verderame. Venivano protette dalla luce con un guscio d’uovo, perché quelle con il colore più intenso erano più pregiate e rendevano qualcosina in più.” Questo mi racconta Mirella, e mi offre una violetta candita dal dolce sapore dimenticato.

“Era di moda – mi dice – metterle nelle coppe di champagne, serviva a toglierne le bollicine, e questo, in un’epoca di bustini strizzavita, non era sgradito alle dame della buona società. Una volta a Udine era la pasticceria Pancera a fare le violette candite, mentre queste vengono dalla Francia, da Tolosa. Là fiorisce un mercato incredibile, c’è persino la “Confraternita della viola”…anche se ogni tanto, al posto delle viole vengono usati i fiori d’acacia! I francesi sanno sfruttare questa risorsa! Per fortuna adesso abbiamo ottenuto la Denominazione di Origine Protetta, altrimenti c’era il rischio che qualche vivaista olandese o tedesco brevettasse la viola di Udine!”

E il profumo, ha una storia molto lunga ma ora è un po’ dimenticato, vero? “Sì, è un prodotto di nicchia, oggi soltanto Borsari di Parma continua la tradizione, guarda caso fa parte di una multinazionale americana. Non c’è spazio più per i piccoli, le piccole produzioni. Ma già ai primi del Novecento si scoprì che con la radice di iris si poteva produrre lo stesso profumo a costo molto minore. Erano i fiori freschi ad avere uno straordinario successo, non c’era cappotto senza mazzetto di viole, in Francia le venditrici erano addirittura tassate per i loro non piccoli guadagni.”

E’ mai stato fatto un profumo “Violetta di Udine”? “ Mi è stato riferito che ai primi del secolo scorso c’era un profumaio in piazza Libertà che lo faceva, ma non ne ho ancora la certezza. Anche per raccogliere questi indizi io ogni anno organizzo i “Dies violae”, ci viene gente da tutta Europa e porta non solo piante di violette ma anche gioielli, porcellane, cartoline, profumi, sciroppi, canditi, ovviamente tutto dedicato alle viole. E’ bello, perché è una occasione di scambio con altri appassionati. A me dispiace moltissimo vendere le mie viole.”

©Antonietta Spizzo per “Il Nuovo FVG” 2006